La riflessione dello storico Agostino Giovagnoli, docente di Storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano: «L’antisemitismo e la xenofobia in Italia e in Europa sono tornati a diffondersi senza incontrare la condanna pubblica che la memoria del fascismo avrebbe dovuto suscitare immediatamente. Ecco perché festeggiare la Liberazione è una forma di vigilanza»
Il 25 aprile 1945 è stato un giorno di festa. Dopo tante parole e tante polemiche, questa verità storica resta inconfutabile. Finiva quel giorno, infatti, la dura oppressione nazi-fascista che aveva fatto tante vittime negli anni precedenti. Per l’Italia finiva quel giorno anche la più terribile guerra della storia. I leaders che si ritrovarono quel giorno in piazza Duomo a Milano per celebrare con un comizio questa duplice fine diedero voce a un‘Italia tornata pacifica, libera e democratica.
Capire il senso di questa festa significa chiedersi che cosa sono stati il fascismo e il nazismo di cui l’Italia si è liberata definitivamente il 25 aprile 1945. Sono molte le cose che si potrebbero ricordare: fine della libertà e della democrazia, assassini politici, imprigionamento o esilio degli avversari…
Ma c’è una memoria più importante di tutto il resto: quella della Shoah. Nazismo e fascismo cooperarono, insieme ad altri, nella persecuzione e nello sterminio di quasi sei milioni di ebrei. Uomini, donne, anziani, bambini – “colpevoli solo di essere nati”, come ricorda Liliana Segre – furono schedati, discriminati, deportati e in gran parte uccisi con un’operazione condotta in modo sistematico dal regime nazista e da quello fascista.
È un motivo più che sufficiente per ricordare ciò da cui siamo stati liberati il 25 aprile 1945. Malgrado l’evidenza di tutto ciò, negli ultimi decenni l’antifascismo non ha goduto di buona fama. Ciò si deve certamente anche alle responsabilità degli stessi antifascisti o di chi si è richiamato all’antifascismo in modo improprio, strumentale o riduttivo. Sono stati molti coloro che lo hanno identificato esclusivamente con l’azione di forze politico-ideologiche di sinistra: comunisti, socialisti e azionisti. Contro il fascismo invece hanno lottato in Italia anche cattolici, liberali e monarchici e, soprattutto, antifascismo non significa solo lotta contro una forza politica, i suoi leaders e i suoi militanti.
Significa, soprattutto, rifiuto di valori, idee, comportamenti che hanno scatenato nel cuore dell’Europa la tragedia della Seconda Guerra Mondiale e l’orrore della Shoah. Ma non ci sono solo le responsabilità dell’antifascismo. È in corso ormai da anni i tutti i paesi europei – seppure con diversa intensità – una campagna per rimuovere il ricordo di tali tragedie, per attenuare le responsabilità di chi le ha compiute, per non interrogarsi sulle complicità di chi le ha rese possibili…
Tutto ciò non è stato senza conseguenze. Se ne vedono gli effetti in richiami sempre più espliciti – nelle parole dei politici come negli striscioni dei tifosi – a simboli, persone, azioni di un’ideologia e di un regime che si sono macchiati della morte di tanti innocenti. Mentre il fascismo veniva presentato con un volto sempre più accettabile, l’antisemitismo è tornato a manifestarsi in forme preoccupanti. Il razzismo e la xenofobia sono tornati a diffondersi senza incontrare la condanna pubblica che la memoria del fascismo avrebbe dovuto suscitare immediatamente.
C’è chi ha preso nuovamente le armi per compiere una strage, come quella compiuta nel 2011 ad Utoya, vicino ad Oslo, da Anders Breivik, che si è esplicitamente definito fascista. Un mese fa, in Nuova Zelanda, è stata la volta di Benton Tarrant, autodefinitosi “eco-fascista” a uccidere 49 musulmani, richiamandosi al precedente di Luca Traini, che a Macerata nel 2018 ha ferito sei immigrati di origini subsahariane.
Del fascismo parliamo oggi come di un pericolo sempre più lontano, ma questa malattia dell’Europa novecentesca non è scomparsa definitivamente il 25 aprile 1945. Ecco perché è importante continuare a ricordarla, non per celebrarla stancamente ma per assumere una rinnovata vigilanza verso le forme attuali di tale malattia.
Nelle file della Resistenza è nato il sogno di un’unità europea che ha poi cominciato a realizzarsi nel dopoguerra. Anche continuare a costruire tale unità è un modo per combattere questo pericolo da cui non possiamo considerarci del tutto immuni.
da famiglia Cristiana
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